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A Gamba Tesa | Sergio Carpanesi: “Fui profeta in patria a La Spezia, vi racconto la Roma di Carniglia e la Viola della Finale di Coppa del ’57 ”

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Intervista a cuore aperto a Sergio Carpanesi, ex calciatore Fiorentina, Roma e Sampdoria (tra le altre), poi allenatore in tante piazze di una “provincia che quasi non c’è più”. Uno sguardo al passato e tante considerazioni sul presente del calcio, raccontato da chi ne ha vissuto – da diversi punti d’osservazione privilegiati – la storia all’interno del secolo scorso

Partiamo dal passato: un ricordo sul Tricolore conquistato nel ’56 con la Fiorentina e uno sulla finale persa contro il Real Madrid, con quell’increscioso errore arbitrale…
“Il ricordo migliore è il mio debutto in A nella partita a Ferrara con la vittoria per 0-1 con mio gol. Da ragazzino del settore giovanile avevo esordito e questo era un caso unico in quegli anni. Vi spiego perché: la Fiorentina era una squadra di vertice ed era difficile inserire giovani, dato che non c’erano all’epoca le sostituzioni. La politica intelligente della Fiorentina fu quella di crearsi da sola i giocatori in casa: replicherei questa tattica anche quest’oggi, dato che in questi anni sembra mancare la giusta progettualità verso il futuro, indipendentemente dagli investimenti di Commisso. Passando alla finale di Coppa dei Campioni, parto dal dirvi che si disputava a Madrid. La Fiorentina si dimostrò all’altezza del Real, che in quegli anni era una squadra incredibile: l’arbitraggio ha penalizzato la squadra meno importante. Quel rigore è stato paradossale. Dispiacque soprattutto per il Presidente Befani, che aveva un modo di fare molto diretto con noi calciatori. Vi racconto un aneddoto, anche per darvi un’idea di quel che era il rapporto che i vecchi padroni d’azienda avevano con le proprie creature. Capitava a volte con dei compagni di salire nell’ufficio presidenziale per chiedere un ritocco all’ingaggio. Ricordo che il difensore Magnini un giorno entrò nel suo ufficio e fece segno “5” con la mano, come a chiedere un aumento a 5 milioni. La risposta di Befani fu: <<Fuori di qui, che la mano te la do in viso!>>. Era un calcio più sostenibile perché i presidenti, che erano prima di tutto capi d’azienda all’infuori del pallone, ti davano quel che potevano permettersi, senza indebitarsi in maniera pericolosa”.



Continuiamo sull’Europa, ma lei era “cresciuto” di qualche anno: che sensazioni ha in riferimento alla Coppa delle Fiere del ’61 vinta con la Roma?
“La Coppa delle Fiere è l’ultima antenata della Coppa UEFA. Era una competizione di livello, dove la Roma fu in grado di battere il Birmingham tra andata e ritorno. Fu importante per il fatto che una squadra come la Roma fu in grado di vincere qualcosa a livello europeo. Era un buon viatico per la gloria per chi non era abituato a sollevare trofei”.



Mister Carniglia. Che tipo di rapporto aveva con i calciatori? Che tipo di allenatore sarebbe oggi? C’è qualcuno che glielo ricorda in particolare?
“Carniglia era un ottimo allenatore. Il suo limite era quello di essere poco tollerante, anche con i propri giocatori: le schermaglie Carniglia-Lojacono-Angelillo ancora le ricordo. Erano argentini e per questo i dialoghi tra di loro erano molto “sanguigni”. Carniglia era una persona molto seria e un buon allenatore, se consideriamo le figure dei tecnici di allora. Tutti dovevano essere contemporaneamente preparatori atletici, bravi però anche sotto il profilo tattico. Oggi invece è più un lavoro di staff, con i vari settori specifici curati da tecnici diversi. Carniglia era un uomo simpatico ed esuberante, che a volte esagerava. Il rapporto umano tra allenatore e calciatori è fondamentale. Voglio esporvi una mia opinione, che si è formata nel corso degli anni, anche da osservatore esterno.
13 milioni netti a stagione per un allenatore di Serie A sono tanti. I troppi denari che sono consegnati nelle mani dei giovani, a volte fanno perdere nei ragazzi gli stimoli a volersi migliorare. Io non avevo il posto garantito? E allora provavo a imparare come cimentarmi ad alti livelli in un ruolo diverso dal mio. La capacità di giocare tanti ruoli è importante. Questo è lo spirito che vorrei vedere in tanti ragazzi”.




Carniglia era approdato a Roma dopo due Coppe dei Campioni vinte, al pari del Mago Helenio Herrera e di Mourinho. La portata dei personaggi può essere paragonata alla grande reazione della piazza romana per Mou?
“Chi ha vinto ha un titolo di merito. Ritengo che abbiano la loro parte d’importanza rilevante anche coloro i quali scelgono i giocatori della squadra. Posso andare al PSG e vincere 7 campionati. È molto più apprezzabile quello che fa Gasperini all’Atalanta, rispetto che vincere 9 campionati di fila con la Juventus. Dipende dal contesto. Se il contesto è già vincente di per sé, conta il programma messo su da un allenatore. Troppo spesso nell’opinione pubblica viene criticato l’allenatore solo in base al risultato. All’epoca Carniglia fu presentato dalla stampa come una grande possibilità per quella Roma, un po’ come in questi giorni sta capitando con Mourinho, ma ripeto: gli allenatori vanno giudicati nei contesti. Vincere o fare bene in alcune piazze pesa e conta più rispetto che altrove. Vi porto il mio esempio, la mia storia da allenatore allo Spezia. Io fui realmente ‘profeta in patria’, anche se forse nessuno lo è mai stato fino in fondo, perché conoscevo l’ambiente e sapevo quali corde toccare in città per portare la passione di un popolo allo stadio. La Spezia è la città dove sono nato. Una bellissima terra, con dintorni spettacolari. Ho vissuto lì la mia adolescenza e il dopoguerra. Partimmo con 300 spettatori e all’ultima di campionato avevamo le tribune piene con 12.000 tifosi orgogliosi del nostro percorso”.

In passato, con i mass-media meno pressanti, era diverso il ruolo dell’allenatore “verso la squadra”?
“La partecipazione della stampa al tempo era riferita alla presenza negli allenamenti. I giornalisti mantenevano un rapporto di rispetto con i calciatori e viceversa. Normalmente i media erano più “vicini” rispetto ad ora. Stesso posso dire per i calciatori, che si frequentavano tra loro anche all’infuori degli allenamenti. Ora tutto somiglia più a un condominio. La stampa era già attenta allora e venivano scritti articoli solo dopo aver seguito attentamente i fatti, osservandoli da vicino, con maggiore credibilità rispetto ad ora. Adesso si tende a parlare per “sentito dire”, mentre prima – avendo la possibilità di presenziare in massa nei centri sportivi, le notizie erano sempre comprovate dai fatti accaduti. È cambiato il calcio e con esso è cambiato anche il ruolo dei giornalisti e dei media… non lo scopriamo certo solo oggi”.

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Passiamo alla strettissima attualità: mister Spalletti è stato accostato al Napoli. Lei lo ha allenato nello Spezia. Che tipo era da calciatore?
“Prendemmo Spalletti dall’Entella, il tecnico era Gian Piero Ventura. In Serie C Luciano era quello che io chiamo un “cavallone”. Un “diesel” che ci metteva un po’ per carburare, un giocatore molto generoso, che nell’arco dei 90′ era molto continuo. Ha fatto poco da calciatore, perché – ad eccezione del periodo con me allo Spezia – è stato penalizzato da alcuni infortuni. Vedendolo agli inizi, difficilmente avresti espresso un giudizio ottimista sulla sua carriera futura da allenatore. A dire il vero, sotto il profilo dei risultati e della crescita, è stato esponenziale. Non prometteva benissimo, ma ricordo che – ad esempio – quando lo prese la Roma, ero sicuro che col tempo avrebbe avuto un impatto. Spalletti ha avuto difficoltà iniziali e poi è riuscito ad affermarsi con le sue idee. L’idea di Totti “finto centravanti” ha favorito l’affermarsi anche di giocatori meno “prevedibili”. Tornando velocemente a Mourinho è uno che ha ottenuto tanto in squadre vincenti, ma il tempo passa anche per gli allenatori. L’abbiamo visto con quello che ha fatto negli ultimi 5 anni. Rimanendo sul discorso Roma, andava fatto anche qualcosa per provare ad attrarre di nuovo il grande pubblico che c’era fino a qualche tempo fa e la scelta di Mourinho potrebbe essere quella giusta”.



Restando su Luciano da Certaldo. Potrebbe far bene con De Laurentiis?
“Parto da una considerazione di carattere umano: a Spalletti è stato rinnovato un contratto da parte dell’Inter a tre domeniche dalla fine del campionato e poi è stato esonerato in favore di Conte. Ora sta a casa, lautamente pagato e immagino debba trovare l’entusiasmo per partecipare a un nuovo progetto. La cosa avvilente del mondo del calcio è che – con l’arrivo di tantissimi soldi – i comportamenti sul livello umano sono praticamente azzerati. Napoli potrebbe rigenerarlo dal punto di vista dell’entusiasmo, anche se poi resta da vedere che rapporto si instaurerà con De Laurentiis”.

Abbiamo parlato di Spalletti e dello Spezia. La domanda è automatica. Secondo lei i ragazzi di Italiano ce la faranno a salvarsi?
“Spero vivamente di sì, essendo io spezzino. La situazione dello stare senza pubblico ha annullato il fattore campo, cosa che ha sfavorito in particolare tante piccole squadre. Se pensiamo al buon rendimento della squadra di Italiano – soprattutto tra le mura amiche – contro tante “grandi” del nostro campionato, possiamo immaginare quanto meglio avrebbero fatto i suoi ragazzi con la spinta di un pubblico che sognava da morire la Serie A. Parlo della spinta emotiva, perché economicamente parlando – almeno ad alti livelli – gli incassi dello stadio sono diventati una voce di bilancio marginale. Prima funzionava all’opposto: quasi tutto era fondato sulla capacità di attrarre persone a guardare assiduamente le partite. Italiano ha mostrato correttezza e competenza e a mio giudizio tutti i giocatori devono partire dalla stessa base, consentendo al tecnico di scegliere in base alle garanzie che essi danno. Non deve esistere il “premio a prescindere” di fare “qualche scampolo di partita”: avere 35 giocatori in rosa per fare campionato e Coppa Italia non ha senso, perché finisci per creare finti equilibri all’interno dello spogliatoio. Ricordo che alla Fiorentina, quando ci giocavo io, sostituivamo i giocatori per anzianità: ad esempio presero Julinho e Montuori avendo in testa esattamente cosa avrebbero dovuto fare dal momento del loro approdo. Ora prendi doppioni solo per tappare i buchi, senza dare adeguata copertura ai ruoli. I vari Milekovic e Pezzella – per dirne due della Fiorentina attuale – hanno delle qualità ma hanno dimostrato limiti di personalità: avrebbero avuto bisogno di una copertura diversa alle spalle”.



Prenda quest’ultima domanda come un gioco che stiamo facendo con tutti gli ospiti esperti di “calcio e trofei”: chi vince la Champions League tra Chelsea e Manchester City?
“Sono squadre dello stesso campionato. Sembrava che anche in Europa League dovessero andare due inglesi. Propenderei più per il Chelsea, una squadra che prende pochissimi gol. Penso all’Inter ultima nel girone di Champions che poi si è inquadrata in difesa: l’errore clamoroso che hanno commesso tutti è stato quello di affrontare i nerazzurri a viso aperto. L’unico modo di affrontare l’Inter era quello di chiudersi ed aspettare. Hanno smesso di farlo e si sono esposti a Lukaku e Lautaro, che negli spazi possono giocare in tranquillità. Un po’ come il Chelsea. Se penso alla Champions League non posso però non dire che il percorso dell’Atalanta di questi ultimi anni sia figlio del fatto che Gasperini giochi il miglior calcio d’Italia”.

Fonti foto: Almanacco Giallorosso | TuttoMercatoWeb | Sport Historia | Siamo la Roma | SkyTG24 | Napoli Più | Virgilio Sport

Alessandro Sticozzi

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