Lo sport è una parte essenziale della formazione di ognuno di noi e questo aspetto è sempre meno in voga, spesso sottovalutato e, a volte, persino calpestato
Il calcio è uno di quegli sport praticato da tutti, anche senza avere delle specifiche qualità atletiche o tecniche, tutti abbiamo giocato sin da bambini, perché basta avere un piccolo spazio ed una palla e l’istinto è quello di colpirla. Il calcio è anche aggregante, quante amicizie sono nate dietro ad un pallone, dietro alla passione per questo sport, per una squadra, quanti sfottò abbiamo ricevuto ed elargito per una partita tra amici o tra le nostre squadre del cuore, quelle fatte di professionisti veri, pagati per “giocare”? Quale immenso mondo è nato, cresciuto e si è anche arricchito grazie ad un pallone? E’ passato davvero tanto tempo dalla sua nascita ed i cambiamenti sono stati molteplici e radicali. Il calcio è stato addirittura in grado di fermare una guerra, seppur per poche ore, la famosa “Tregua di Natale“. Era infatti il giorno di Natale del 1914 e alcuni soldati tedeschi, inglesi e francesi interruppero le ostilità della Prima Guerra Mondiale per scambiarsi doni, scattare foto ricordo e perfino giocare qualche partita di calcio. Tutto avvenne spontaneamente, senza aver ricevuto alcuna autorizzazione dai propri Comandi. Tanto tempo è trascorso da quell’epoca, quando era in voga il detto di Pierre de Coubertin: “nello sport l’importante non è vincere, ma partecipare“, tanti i cambiamenti che spingono sempre di più sull’importanza di vincere e, spesso, a qualsiasi costo. Insomma è cambiata la cultura generale, lo sport sinonimo di aggregazione è quasi scomparso, a tutti i livelli, persino nei dilettanti, persino tra i genitori sugli spalti che non insegnano ai loro figli/e a “giocare” a calcio, ma a vincere. Siamo, probabilmente, sull’orlo di un precipizio e dobbiamo decidere se aggrapparci alla sportività o buttarci giù a capofitto nella slealtà sportiva pur di vincere, dobbiamo decidere se restare aggrappati alla cultura positiva e aggregante dello sport, oppure buttarci a capofitto nella cultura del profitto costi quel che costi.
L’associazione “cultura e sport” non è casuale ovviamente, è invece un legame che dovrebbe essere sempre all’apice di ogni considerazione, di ogni valutazione. Le responsabilità del mondo della cultura sono le più grandi ed è anche giusto sia così. Sappiamo bene tutti che ci troviamo nel bel mezzo di un’era che sta stravolgendo la cultura del mondo dalle fondamenta, più profondamente di quanto si riesca a considerare, perché i cambiamenti del politically correct sono radicali e difficilmente si tornerà indietro. “L’espressione angloamericana politically correct (in ital. politicamente corretto) designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone” (fonte TRECCANI). Probabilmente tale concetto è stato un tantino distorto nel tempo, perché ad oggi non si sentono più critiche dirette, neppure per situazioni che non lasciano alcun dubbio. Oggi si deve essere corretti a tutti i costi e questo, paradossalmente, porta a mancare di rispetto a molti. Perché se accade un episodio eclatante su un campo di calcio e viene commentato in maniera parziale, allora si manca di rispetto alla squadra avversaria, ai tifosi avversari, all’intelligenza generale, ma questo passa in secondo piano. Concretamente non si considera più cosa sia giusto o sbagliato, ma si considera esclusivamente cosa va detto e cosa no. Questa è controcultura a modesto parere dello scrivente.

Rimaniamo sul campo che ci interessa maggiormente, quello del calcio. Soffermiamoci sul ruolo dei telecronisti, sulla loro professionalità e quale potrebbe e dovrebbe essere il loro ruolo, la loro responsabilità. Ovviamente, anche nei commenti televisivi, il politically correct vince su tutto, bisogna difendere le categorie e non si può dire nulla sugli arbitri, nulla su una squadra, nulla su un calciatore, nulla sugli allenatori, nulla di negativo, mai. Se c’è un fallo di ostruzione non si commenta il fallo, ma la bravura del giocatore per aver interrotto un’azione promettente. Si esalta la distruzione anziché la costruzione, il negativo anziché il positivo. Mai un commento chiaro e diretto su una simulazione o sull’eccesso di manifestazione di dolore senza nemmeno essere stati toccati. Mai un’assunzione di responsabilità, mai commenti decisi sulle panchine o sui calciatori in campo che hanno comportamenti aggressivi con la squadra arbitrale. Però, spesso, si pone l’attenzione sull’importantissima notizia che l’allenatore dell’una o dell’altra squadra si è arrabbiato ed ha scalciato una bottiglietta d’acqua. L’importanza del politically correct “nazionale” si nota, ad esempio, nelle differenze di valutazione quando si commentano partite di altri campionati, dove le responsabilità di ciò che si dice è meno sotto i riflettori e con minore rischio di essere in qualche modo tacciati di qualcosa o, addirittura, essere messi da parte. Un esempio tra gli altri è Massimo Marianella quando, durante la telecronaca della partita di Premier League “Everton-Man City (finale 0-3) del 14 maggio 2023, riferito ad Ederson, portiere del City, dice: “…poi si lamenta giustamente di Maupay perché, come sempre fa, sono più i falli che le giocate calcistiche quando è in campo”. Tale commento in relazione ad un’ostruzione (non fischiata) di Maupay (Everton) su Ederson, minuto 65’39”, ma non è finita qui perché, solo pochi secondi dopo, arriva anche un commento sull’arbitro: “questo mi sembra un angolo regalato all’Everton” minuto 66’12”. Complimenti sinceri a Massimo, ma perché ciò non accade anche durante le partite del nostro campionato? Naturalmente non lo chiediamo al buon Marianella, ma a tutta la classe giornalistica. Gioverebbe al sistema calcio e spronerebbe tutto l’ambiente a pensare di più al calcio giocato, allo sport invece che alle polemiche, aiuterebbe enormemente il sistema calcio a ritrovare il suo habitat naturale, quello dello sport e della sua bellezza.
Fonti foto: superscommesse.it; twitter.com
Luigi A. Cerbara