L’exploit della Macedonia del Nord è l’ultimo bagliore, in ordine di tempo, di un territorio ancora lacerato da tensioni etniche. Una breve storia di quel che fu (ed è ancora) il calcio nella ex Jugoslavia
E’ stato detto (quasi) tutto della favola Macedonia del Nord e di un grande campione che, dopo aver vinto praticamente tutto, si appresta al tramonto della sua straordinaria carriera giocando per la prima volta un torneo maggiore con la nazionale del sole: Goran Pandev.
Escludendo la Croazia, unica isola felice, la selezione giallorossa è una boccata d’ossigeno nella tribolata situazione delle nazionali dell’ex Jugoslavia, che dalla fine della prima guerra civile nel 1996 faticano ad essere qualcosa di più di semplici mine vaganti nei gironi di qualificazione.
Secondo l’antico adagio del “si stava meglio quando si stava peggio”, l’unità tenuta a fatica dal Maresciallo Tito (Bratstvo i Jedinstvo, Fratellanza e Unità) rendeva anche a livello calcistico. La Reprezentacija fu grande soprattutto a livello olimpico: tre argenti (Londra ’48, Helsinki ’52, Melbourne ’56) e un oro (Roma ’60). A livello europeo un secondo posto nel 60′ e nel ’68 (sconfitta dall’Italia nell’Europeo di casa nostra). Sei anni prima un quarto posto al Mondiale cileno, poi un lento declino: non ci furono ricambi generazionali di rilievo e la Jugoslavia mancò di risultati di rilievo (nonostante un gigante come Vujadin Boskov sulla panchina slava dal ’71 al ’73) fino al 1990, quando la golden generation dei vari Jarni, Mihajlovic, Prosinecki, Boban, Boksic, Savicevic, Mijatovic e Davor Suker sfiorò il titolo under 21 continentale. Subito dopo il Mondiale italiano, con la Nazionale maggiore jugoslava che probabilmente le avrebbe prese da quell’esercito di giovani talenti.
La Coppa dei Campioni vinta nel ’91 al San Nicola di Bari dalla Stella Rossa di Belgrado fu il canto del cigno di un calcio e del suo popolo.

I pezzi pregiati della Crvena Zvezda, manco a dirlo, furono subito presi d’assalto come offerte al discount dalle grandi d’Europa. Savicevic al Milan, Jugovic alla Sampdoria, Mihajlovic alla Roma, Prosinecki prima al Real poi al Barcellona. Poi il mitico Darko Pancev: di mito bisogna parlare perchè entrò nella schiera dei bidoni per antonomasia del calcio, con gli anni all’Inter in cui fece la fortuna della Gialappa’s Band piuttosto che dei nerazzurri.
Di seguito la guerra, la squalifica da Euro ’92, la tragedia umana e sportiva da cui fiorirà l’impresa della Danimarca. Con un’avvisaglia simbolica giusto due anni prima: a Zagabria, il big match tra la Dinamo e la Stella Rossa fu il prologo (che quel giorno non risparmiò nessuno, nemmeno i giocatori in campo) di un sanguinoso ed infinito conflitto. Famoso fu il calcione che Zorro Boban rifilò a un poliziotto per difendere un tifoso croato inerme.

Tra gli ultras che affollano il Marakanà di Belgrado, intanto, si fa strada un individuo che fa ufficialmente il buttafuori, ma che alle spalle ha un curriculum criminale di tutto rispetto: rapinatore seriale fin dalla maggiore età, si dedica a pestaggi e sequestri di personaggi sgraditi al regime sotto il benevolo occhio dei servizi segreti jugoslavi. Prosegue la sua carriera uscendo e rientrando dalle varie carceri europee con le accuse più disparate, tra cui l’omicidio di un alto papavero di una compagnia energetica.
Uscito di galera per l’ennesima volta, riorganizza il tifo della Stella Rossa in nome del nazionalismo serbo. Raduna hooligans e criminali di ogni tipo nelle segrete di una pasticceria donatagli dalla dirigenza della Crvena Zvezda, e con l’avallo del presidente serbo Slobodan Milosevic compierà stupri di massa, razzìe e uccisioni durante la guerra.
Quell’uomo era Zeljko Raznatovic, conosciuto col famigerato pseudonimo di Arkan , e la sua brigata seminerà il terrore in tutti i Balcani con il nome delle Tigri.

Il collage subito sotto rende bene la misura politica di un’etnia fierissima, che nel separatismo ha visto la sua nemesi storica: il nazionalismo -incarnato da Gavrilo Princip, che a Sarajevo nel 1914 nel nome della Grande Serbia esplose due colpi uccidendo l’arciduca austriaco Francesco Ferdinando e la consorte, fu la stessa matrice per cui esplose la Prima Guerra Mondiale e implosero, a oltre 85 anni di distanza, l’impero asburgico e lo stato jugoslavo.

a staccarsi da Belgrado
Tornando al calcio, dopo la guerra il nulla. O forse no. Nella prossima puntata delineeremo il quadro generale del Fudbal slavo, dopo la dissoluzione di una fragilissima unità di popoli durata poco più di settant’anni.
Foto gazzetta.it, openagenda.it, wikipedia, quattrotretre.it, super6sport.it
Valerio Campagnoli